La sfida dell’educatore: gli strumenti della resistenza non violenta e della nuova autorità

Da 20 anni educatrice e da 10 responsabile di una comunità residenziale per minori in uscita da percorsi di vita traumatici, l’anno scorso Frida Luison ha frequentato il corso di Riflessi curato da Haim Omer, che ha presentato la sua “Nuova Autorità”, una nuova metodologia di lavoro per gestire i comportamenti a rischio e violenti in famiglia, nelle comunità, nelle istituzioni.

Le abbiamo chiesto un contributo per contestualizzare detta metodologia nel suo quotidiano contesto di cura. Ci ha raccontato di un percorso, di nuovi strumenti e inediti approcci per risolvere criticità antiche almeno quanto la sua professione.

Alla ricerca
di una nuova autorità

Il mio primo contatto diretto con il Professor Omer si è svolto nel 2019, in occasione del seminario su “La Nuova Autorità” organizzato da Cooperativa Paradigma, Fondazione Paideia e l’Associazione Il Melo. Ebbi modo quel giorno di interagire con lui sul palco e di porgli qualche domanda relativa a come, in comunità, già stessimo cercando di tradurre operativamente alcuni dei concetti più significativi da lui proposti nell’omonimo libro.

Entrare in contatto diretto con Omer – e con l’équipe di Riflessi Formazione – mi diede modo di fruire di lì a poco della sua supervisione diretta nel caso di un’adolescente problematica ospitata in comunità. Era una ragazzina verbalmente molto aggressiva e maltrattante, perennemente chiusa nella sua stanza dalla quale respingeva chiunque. E così anche quando usciva: non ci diceva dove andava, con chi, quando sarebbe tornata. La sua supervisione calzava a pennello. Abbiamo iniziato ad applicare i nuovi strumenti proposti da Omer: ci ha fornito consigli dettagliati e azioni concrete immediatamente applicabili: avevamo bisogno di vincere quel senso di impotenza tipico di queste situazioni, quando tutto sembra inefficace e rischi di pensare che non ci sia nulla da fare.

L’efficacia dell’intervento di supervisione fu evidente. Mettendo in atto alcuni di quei suggerimenti innescammo un miglioramento della situazione tangibile e insperato. Scelta naturale fu quella di approfondire il modello nel corso organizzato pochi mesi dopo: se la supervisione forniva una guida subito applicabile e tarata su quel caso specifico, il corso ci avrebbe permesso di interpretare quei principi e padroneggiare detti strumenti per poterli calare in situazione nei casi più diversi.

Un modello concreto
e due elementi di forza

Elemento chiave del modello appreso è sicuramente il concetto di autocontrollo, laddove per innescare il cambiare nell’altro, l’adulto deve prima di tutto sviluppare una maggiore forma di controllo su se stesso. Sei tu per primo a dove fare qualcosa: devi controllare le tue reazioni, disabituarti all’agito d’impulso, respirare l’attesa, imparare a “battere il ferro finché è freddo”. Un cambio di paradigma che stravolge modi di dire, pensare e agire. Sembra banale, ma quanto è difficile per noi educatori capire che una situazione di conflitto in ebolizzione può essere lasciata raffreddare qualche minuto prima di intervenire? Non viene naturale.

Altro principio fondamentale nel modello è la forza del gruppo. Oggi in comunità parliamo con i ragazzi con il NOI. Abbiamo imparato a uscire dalla dimensione dell’individio per entrare in quella del collettivo che cura. Un collettivo che non coinvolge solo la mia équipe più ristretta di operatori della Comunità, ma anche le persone più significative per il ragazzo, i genitori, gli insegnanti, l’allenatore di calcio, l’animatore del centro estivo, una rete di supporto (supporters) allargata, composta da tante persone importanti a cui chiedere supporto.

Serve più tempo
servono meno parole 

Prima di implementare in équipe il modello della Nuova Autorità, il nostro approccio cercava di cambiare determinati atteggiamenti del ragazzo grazie a importanti discorsi sul bene e sul male, su cosa fosse accettabile e cosa invece aveva superato i limiti. A volte bastava, ma nelle situazioni più compromesse la sensazione era che tanti discorsi trovassero poco terreno fertile. Omer ci ha insegnato a lavorare sulla dilatazione del tempo e per sottrazione delle parole. Servono meno parole, ed è importante che l’entità pronunciante sia quella rete di persone attorno al ragazzo che si fa di fronte a lui soggetto plurale.

Penso allo strumento detto “Annuncio”. Nato in realtà per i genitori, è applicabilissimo anche nei contesti di comunità come il nostro. Trattasi di una lettera scritta dall’intera equipé e letta in gruppo al ragazzo, nella quale poste le ovvie premesse affettive gli si fa presente il verificarsi di situazioni spiacevoli che hanno generato un clima sfavorevole per tutti. Ribaditogli in modo chiaro e diretto che i suoi educatori non tollereranno più i suddetti comportamenti, gli si comunica il desiderio di farsi aiutare da tutte le persone che gli vogliono bene. “Così non va. Ma ti vogliamo bene e crediamo in te. Tutti”.

Arrivo quindi alle “scuse”, all’atto riparativo richiesto al ragazzo. Non le classiche scuse formali, ma un gesto pensato frutto di un processo. L’esempio che porto è quello di una torta preparata da un ragazzino in comunità, che ha raccontato al gruppo di averla preparata pentito per il ripetuto comportamento violento nei confronti della casa e di alcuni oggetti. Sapeva di aver creato un momento spiecevole e si scusava. Non servivano scuse punitive o umilianti bensì un ritorno, un pentimento collaborativo e inclusivo: è stato un collega ad aiutarlo a scegliere la ricetta, a preparare la torta e a organizzare la presentazione ai compagni.

Oggi c’è il gruppo

Nuovi strumenti nel mio cassetto degli attrezzi di operatrice sociale. Non vi è di certo fra loro la bacchetta magica, nessuna panacea e soluzione immediata a tutti i mali, c’è invece un lungo lavoro dietro, scandito da alti, bassi e periodi in cui è bene allentare le maglie e valutare l’andamento dalla situazione. Ciò che sento essere maturata è tuttavia l’idea del percorso che ci troviamo a percorrere: la convinzione che ci siano sono tante azioni fa fare, nessuna risolutiva al 100%, ma che tante azioni insieme e tante persone insieme possono fare la differenza.

È il collettivo a sgravarti dal senso di solitudine, impotenza, scoramento. Il collettivo all’interno della comunità, dove l’approccio di équipe si è rafforzato, e dove non sei più da solo ad affrontare il caso di quel ragazzino che ce l’ha solo con te, mentre si comporta bene con gli altri. Oggi lo si affronta comunque in gruppo. E c’è poi collettivo fuori dalla comunità, la rete di supporters. Non è più un dialogo o una diatriba personale: l’operatore diventa protagonista di un processo di cui conosce la direzione e nel quale dispone di consapevolezze, risorse e di tutto l’aiuto di cui necessita.

Frida Luison
Cooperativa Sociale Paradigma Onlus

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